PENSIERI GIU’ PER LO JENISEJ

Testo di Leandro Lucchetti e foto di Piero Bosco

Non tiro mai la tenda dell’oblò che non è un oblò ma una piccola finestra perché su tutti i fiumi navigabili del mondo i moderni battelli fluviali hanno depennato gli oblò in favore delle finestre: entra più luce e si vede il paesaggio, certo ma l’atmosfera cambia. Per come la vedo io una cabina con l’oblò è un’avventura, una cabina con la finestra è una crociera. Ad ogni modo quella che entra, attesa, è la luce dell’alba e non appena apro gli occhi vedo i due cigni bianchi che si baciano becco a becco: sono lì stampati sul lenzuolo azzurro sopra cui ho dormito. Giù dalla cuccetta, fuori della porta della cabina, sul ponte di prua c’è l’alba che mi voglio godere. Ho messo la felpa perchè a queste latitudini l’estate è frizzosa e le albe sono, per così dire, taglienti. Sono in mezzo a una nebbia che potrei dire padana se non fosse che la bandiera che pende floscia sull’asta di prua è bianca, azzurra e rossa, la bandiera dello Zar che è tornata ad essere il vessillo della Russia. Dico la verità, mi piaceva molto di più quella di prima, tutta rossa con la falce e martello, non c’entra essere o no comunisti, era più bella e basta. Così com’era più bello, trascinante ed entusiasmante il Coro dell’Armata Rossa quand’era il Coro dell’Armata Rossa e non la troupe di canterini-ballerini che va in giro per il mondo adesso. Divago mentre i raggi del sole che dardeggiano rasenti come sciabolate impastano la nebbia e ne fanno una specie di ovatta che pian piano si sfalda e scopre l’acqua del fiume, il grande fiume siberiano, lo Jenisej.
E’ acqua grigio acciaio su cui il sole riflette di giallo freddo come ghiaccio che si riscalda via via fino a risplendere come oro. La prua sembra spostare un’onda a sbaffo, densa e quasi oleosa ma poi mi pare di vedere che nell’onda scivola qualcosa, un dorso scuro che s’inarca e mostra una cresta come corazza: uno Storione e pure bello grande? Perchè no? Ho visto il monumento allo Storione che la gente del fiume ha fatto erigere su una roccia promontorio a picco sulla corrente e dunque qualche Storione selvaggio ci sarà ancora anche se l’acqua dello Jenisej non ha più la purezza di un tempo. Stavolta però l’avvistamento me lo tengo per me, non lo dirò a nessuno: mi ricordo ancora di quella volta in Kamchatka in cui non si vedevano orsi neppure a cercarli col microscopio e tutti a dire ma come non si vedono orsi in Kamchatka!? Tutti delusi e piuttosto seccati, io pure. Poi, proprio alla fine del viaggio, in un rifugio montano dove c’era una meravigliosa polla d’acqua caldissima in cui immergersi e rilassare le scricchiolanti membra, esco per fare pipì tra il fogliame stillante umidità per la pioggerella che viene giù (il cesso era da lungo tempo occupato) e in fondo al viottolo dove stava il bidone della “monnezza” (come dicono a Roma e dintorni), saranno stati cinquanta, sessanta metri, ti vedo un orso pacioso, in piedi, che fruga allegramente nel suddetto bidone. Mi sente, mi guarda, ha l’aria di dire ma proprio adesso dovevi venire a rompere? Si rimette a quattro zampe, giurerei che avesse sbuffato, si gira e se ne va ondeggiando il sederone. Naturalmente vado a dire a tutti che ho visto l’orso, l’ho visto! Non ci credono, non vogliono accettare ‘sto fatto che io ho visto l’orso e loro no, quelli che escono a guardare non vedono nulla, ovvio che l’orso sia sparito nel bosco! Una signora senza pietà mi spiattella in faccia, papale papale, che lei crede che abbia raccontato una frottola, per darmi importanza e farmi invidiare. Ci sono delle volte che rimango senza parole, questa è una di quelle. Così, a scanso di equivoci, lo Storione selvaggio me lo tengo per me e resta registrato nella mia memoria come una bellissima fotografia. Intanto la nebbia si dissolve fluttuando: è come se un naturale tergicristallo cancellasse gradualmente ogni appannamento. Quasi una magia da illusionista, tutto è terso e pulito, il cielo di un azzurro tendente al grigio, qualche nuvola sparsa dagli incerti contorni, l’acqua resta scura come fosse piena di tannini ma diventa in mille modi cangiante a seconda di come picchia il sole, delle nuvole che passano, di che tipo di vegetazione c’è sulle rive, scoscese perchè come tutti i grandi fiumi lo Jenisej ha solcato il terreno la cui superficie incombe a non pochi metri sull’acqua.
In verità c’è poco da vedere, quasi niente: il territorio del medio e basso corso dello Jenisej è una sterminata pianura boscosa senza confini, un deserto di conifere verrebbe da dire, interrotto da spazi disboscati che sembrano senza fine anch’essi e qualcuno li coltiva e non sai chi perché non vedi nessuno. Rarissimamente una fattoria compare sul ciglio, gruppi di bovini, bianchi, macchiano il verde dell’erba, delle capre sgambettano l’erta scoscesa per scendere a bere, s’incrociano sul fiume solo bettoline o si superano cisterne. La monotonia è spezzata da tratti paludosi dove posano gli aironi, da folti canneti con le cime barbute, da cataste di splendidi tronchi rossastri sottratti a boschi lontani e in attesa di essere caricati su zattere-pontoni, ogni tanto una carcassa di battello arenata e corrosa dal tempo, ogni tanto ma proprio ogni tanto una barchetta, guscio di noce, sonnecchia rasente la riva con sopra, appollaiato, un pescatore con la canna che pare addormentato da sempre. Mi risuonano nell’orecchio le solite parole dei tanti che ogni volta prima di partire, quando gli dico dove vado, sbottano: ma che ci vai a fare lì, che non c’è niente da vedere! E’ che oggi chi viaggia per piacere vuole vedere qualcosa di concreto che gli riempia l’occhio: una città e le sue architetture, spettacoli naturali come montagne e cascate e vulcani, isole incantate, spiagge di sogno, oppure popoli esotici, costumi e riti sconosciuti, oppure animali in libertà. Soprattutto vuole fotografare, fotografare tutto e sempre così finisce col non vedere la realtà nel suo insieme ma solo  quello che compare confinato nel mirino della macchina fotografica o della cinepresa, ne so qualcosa io che ho fatto documentari per una vita. Invece c’è un’altra cosa da vedere, affascinante come nessuna: è “la Storia”. Qui sullo Jenisej che scorre placido verso il Mare Artico, anche se sto sulla moderna motonave che risponde al nome di Valery Chkalov, un leggendario pilota eroe dell’Unione Sovietica, posso chiudere gli occhi e sentire un galoppo che si avvicina, posso “vedere” ad occhi chiusi la masnada di Cosacchi che arrestano i cavalli sull’orlo della riva scoscesa, i cavalli sudati scalpitano, i cavalieri scrutano l’orizzonte. Sono in cerca del posto adatto per costruire un fortino che serva come base per i cacciatori di pellicce, il tutto finanziato dai ricchi commercianti boiari di Russia intenzionati ad arricchirsi ancora di più rivestendo di  pregiate pellicce di Volpe Argentata, Zibellino ed Ermellino i nobili e la borghesia di Russia e dell’Europa intera. E’l’estate  del 1628, sono passati 43 anni da quando Ermak e i suoi Cosacchi  hanno dato inizio all’epopea della conquista della Siberia sotto le bandiere dello Zar con i soldi del boiaro più boiaro di tutti il principe Stroganov. Questi Cosacchi giunti in riva allo Jenisej li guida Andrej Dubenskoj, è stanco, smonta di sella e lascia che il suo cavallo se ne vada a pascolare dove gli pare. L’animale caracolla sull’alta riva, trova una discesa al fiume e si ferma a bere in un’ansa delimitata da rocce di granito rosso. Krasnyj Jar, la Riva Rossa, è questo il luogo che Dubenskoj sceglie per edificare il fortino che diventerà la città di Krasnojarsk, dal 1895 una delle più importanti Stazioni della ferrovia Transiberiana.
Oggi Krasnojarsk è un efficiente polo industriale, una moderna città russa, terza in ordine di grandezza fra le città siberiane, posta a valle della grande diga che separa l’alto corso dello Jenisej dal medio corso. Per inciso la potentissima centrale idroelettrica ha modificato l’ambiente al punto che lo Jenisej è l’unico fiume siberiano che d’inverno non gela. Sul lungofiume, nel punto più spettacolare, un cavallo di bronzo con la sella vuota, vuote le staffe, pone lo zoccolo su un vero masso di granito rosso. Lo guardi e alle sue spalle vedi il lungo ponte  a tiranti che unisce le due rive, sul fiume corrono gli aliscafi, sugli isolotti sassosi uomini e donne seminudi si crogiolano al sole, sdraiati sui ciottoli che emanano tepore, i bambini si rincorrono con i piedi nell’acqua, mentre un gigantesco Andrej Dubenskoj bronzeo veglia sulla città da un promontorio a terrazza. Da Krasnojarsk è partito il Valery Chkalov su cui navigo fantasticando di essere non su una motonave ma su uno di quei barconi di legno che venivano utilizzati per il commercio delle pellicce su e giù per il fiume. Ne ho visto uno in grandezza reale perfettamente riprodotto al museo della storia della città, corredato di manichini in costume del XVII secolo a formare l’equipaggio di barcaioli, cacciatori e commercianti. Mi è sembrato una specie di bragozzo col cassero rialzato. Ora però devo uscire dalle fantasticherie perché la motonave accosta ad un imbarcadero. Valery Chkalov, nel suo percorso fino a Dudinka dove termina il fiume propriamente detto e comincia il grande estuario che si mescola con le acque del Mare Artico, fa scalo nei pochi paesi rivieraschi. Ognuno di questi paesi ha un imbarcadero, sono attracchi che mi ricordano quelli dei vaporetti a Venezia: da una parte si scende, da una parte si sale, la fila scende ordinatamente, l’altra fila in attesa sale ordinatamente dopo che tutti quelli che dovevano scendere sono scesi. Naturalmente qui non c’è ressa, nessuno ha fretta, nessuno è nervoso, si agita un po’ solo chi è già pieno di alcol. Siamo a Borogovo: esci dall’imbarcadero e ti ritrovi davanti un corridoio composto da due file di bancarelle che occupano il terreno sabbioso che l’acqua ha lasciato libero per via della stagione secca, alcune decine di metri che vanno dall’imbarcadero alla scala che sale sulla sommità della riva scoscesa.
Sulle bancarelle gli abitanti del paese espongono e vendono i loro prodotti a chilometro zero: verdure, ortaggi, cipolle, vasetti di marmellata, miele, sottaceti, sacchi di patate e poi latte e yogurt e ricotte, carne secca e, soprattutto, pesce secco affumicato che penzola dappertutto come bandiere. Poi sali la scala, raggiungi la sommità della riva dove c’è il paese che è solo un villaggio e di colpo ti ritrovi nella Russia che hai letto nei racconti rurali di Turghenev e di Gogol, alla faccia di chi dice che non ci sarebbe niente da vedere. C’è l’unica strada polverosa, ci sono le casette di legno dipinte a vivaci colori con le finestre incorniciate di legno arabescato, c’è il ragazzino che corre facendo rotolare un cerchio, ci sono gli orti contornati di fiori e la mamma bionda e rosea che spinge l’altalena su cui dondola un florido pargolo, c’è la vecchina rugosa vestita di nero col fazzoletto a fiorami in testa che cuce un qualche merletto, del tutto uguale ma proprio uguale alle vecchie friulane della mia terra. Ecco il cane che ti ringhia e ti abbaia contro perché sente che sei straniero, ecco l’emporio che vende tutto quel che può servire in casa, ecco l’ufficio postale tale e quale a quelli che hai visto nei film western americani. La macchina fotografica o la cinepresa mi appaiono qui come una mezza bestemmia, ci starebbero bene solo Monet o Van Gogh con il loro cavalletto. Anche quel che vedi di meccanico sembra appartenere ad altra epoca: quel trattore è lo stesso dei documentari sovietici anni 30 e 40 del secolo scorso, quell’automobile sbilenca ma funzionante risale almeno agli anni 50 sempre del secolo passato, più moderne ma mica tanto paiono le motociclette, il mezzo più usato da queste parti; vanno molto i sidecar, le moto col carrozzino…aspetta, aspetta…ma quella che passa sferragliando sullo sterrato è una…sì è un sidecar tedesco dei tempi di guerra, credo fossero BMW, ancora coi colori mimetici, proprio uno di quelli che si vedono ancora nei film con la SS al manubrio che fa derapare la moto mentre il suo camerata balza dal carrozzino con la machinen-pistole spianata.
Ad ogni attracco la prassi è sempre la stessa, ormeggio, discesa e salita dei passeggeri, la sfilata di bancarelle con i prodotti a chilometro zero, la scala che sale al villaggio. A Turuchansk è stato deportato il giovane Stalin rivoluzionario, ci sono i resti di un monastero abbandonato che ha conservato le sue campane e il vecchio cimitero semisepolto nella vegetazione: sulle tombe dei monaci emergono le croci ortodosse a tre bracci, uno corto in cima, quello lungo sta sotto e quello trasversale sta in basso vicino alla base. Fra Turuchansk e Igarka si passa il Circolo Polare Artico e tocca sbronzarsi di vodka come da tradizione. Non è la prima volta che si eccede in vodka, è già successo alla confluenza dell’Angarà nel Jenisej. Tutti i villaggi stanno sulla riva sinistra del fiume, la riva destra è più selvaggia, da est irrompono i grandi affluenti, l’Angarà, le due Tunguska, quella meridionale e quella settentrionale, foreste e paludi la fanno da padrone. L’Angarà arriva dal Bajkal, il lago che secondo i siberiani ha l’ acqua più pura del mondo, tanto che la mettono in bottiglia così com’è e la vendono. L’Angarà è azzurro come il cielo e con le sue acque terse purifica anche lo Jenisej. Alla confluenza ci sono isolotti che i locali amano frequentare per fare pic-nic, prendere il sole sulle bianche rocce levigate che emergono dall’acqua, pescare i pesci e arrostirli seduta stante infilzati allo spiedo. Questi pesci sembrano coregoni ma sono molto più grandi dei nostri ed in effetti sono buonissimi, abbiamo fatto pic-nic anche noi sotto la guida di una bella siberiana in tuta mimetica che ci ha illustrato flora e fauna del luogo. Ricordo soprattutto le farfalle, bianche coronate di nero, stanno innumerevoli, dense come mandrie, posate sui massi bianchi e sulla riva ciottolosa, sembrano un gigantesco fiore palpitante d’ali, non chiedetemi il motivo ma non si spostano nemmeno se ci cammini in mezzo.
Per una notte abbiamo tradito Valery Chkalov e abbiamo dormito in un B&B tutto di legno in stile scorridore del fiume: c’erano alcune coppie siberiane e festeggiavano non so che cosa. Impossibile non essere coinvolti, i siberiani sono taciturni e scontrosi ma quando bevono cambiano faccia e diventano estroversi come i napoletani. I brindisi fioccano uno dietro l’altro, i maschi si travestono da femmine e questo fa scompisciare dalle risa le loro signore. Mi prendono di petto e non voglio deluderli, indosso una parannanza e mi mettono uno scialle fiorito in testa, in mano una sorta di grattugia-raganella che devo strofinare per cavarne un suono che pare un rutto. Balliamo la tarantella fra uomini travestiti e le donne applaudono e strillano soddisfatte. Finisce all’aperto, vodka alla mano, attorno a un falò che riscalda anche il cielo notturno ricolmo di stelle mentre le zanzare volano a stormi e ci circondano, prendono possesso di noi ma non pungono, forse le zanzare di qui sono ospitali oppure non gli piace la vodka che circola notevole nel nostro sangue. Il giorno dopo abbiamo riagguantato Valery Chkalov a Jenisejsk. Gli abitanti di Jenisejsk si considerano i parenti nobili degli abitanti di Krasnojarsk, dicono che il loro fortino è stato innalzato prima di quello di Krasnyi Jar, la Riva Rossa, ed effettivamente Jenisejsk è stata Capoluogo di Provincia dal 1724 fino al 1796, dunque l’insediamento più importante sul grande fiume siberiano. E’ stata la Transiberiana a fottere Jenisejsk, il tracciato della ferrovia è passato circa 350 chilometri più a sud ed ha fatto di Krasnojarsk una sua stazione rendendola di fatto la città più importante. Ma a Jenisejsk sono rimasti i palazzi e le case dell’amministrazione zarista, c’è il bel Palazzo del Governatore in stile neoclassico come a San Pietroburgo, ci sono altre costruzioni civili che ricordano la grande capitale sulla Neva, eleganti dacie in legno in cui pare ancora di vedere la buona borghesia di Cechov, ti aspetti che dall’angolo sbuchi “La signora col cagnolino”. C’è una bella chiesa ortodossa in stile moscovita, una torre sul fiume come quelle di un Cremlino. Per questo motivo Jenisejsk è in predicato di essere accolta nel patrimonio dell’umanità sotto protezione dell’UNESCO.
Ma è l’ora del tramonto, l’unica ora veramente imperdibile qui sullo Jenisej perché un tramonto così non lo vedi da nessun altra parte al mondo. Il sole si abbassa sull’orizzonte, senza preavviso diventa una sfera di luce con un’aureola gialla e il cielo diventa rosso ma proprio rosso come se colasse sangue e la sfera di luce mica la puoi guardare, devi abbassare gli occhi e contemplare il riflesso nell’acqua del fiume. Ma è tutta rossa anche l’acqua,  solcata da riflessi d’oro in forma di fulmini e di schegge, per un fenomeno ottico che non si spiegare l’acqua pare condensarsi e creparsi come ghiaccio rosso, si muove, palpita, è un cuore che batte. Poi il sole sparisce, precipita quasi di botto e in cielo si compone una tavolozza di sfumature di tutti i rossi possibili, di tutti gli arancioni, di tutti i gialli. Sull’acqua avviene lo stesso, sull’onda stropicciata come carta il giallo diventa oro fuso. Tra cielo e acqua la foresta è una bandana nera che si riflette a sua volta. Tra foresta vera e foresta riflessa compare una striscia d’argento che pare un ricamo. Dopo uno spettacolo così sei stanco e devi andarti a riposare.
Infine, dopo circa 2300 chilometri di navigazione, Dudinka, la città proibita. Nel 2001 il governo russo ha dichiarato Dudinka “città chiusa”. Arrivi ed è come se trovassi un cartello che dice: “Vietato l’ingresso agli stranieri se non c’hanno il permesso!”. Il motivo della chiusura è controverso, si vocifera di un cimitero di sommergibili nucleari. Il porto è grande, le banchine sono irte di gru rugginose, qui possono arrivare navi di grosso tonnellaggio perché l’estuario dello Jenisej è piuttosto profondo. E’ una mite estate, arriviamo perfino, mi dicono, a 17 gradi. D’inverno qui sono cavoli amari, la temperatura può scendere a meno 40, come vivere in un freezer. Le coordinate sono 69°24’N/86°11’E. Ma è bel tempo, il sole scaldicchia, le case sono parallelepipedi staliniani ravvivati da larghe strisce di colore, un inconsueto grigio-lilla alternato a verde acqua marcia. Le strade sono pulite, bambini razzolano dappertutto, la gente affolla i supermercati, persone anziane e signore di bel portamento passeggiano, mi pare ci sia una gran quantità di floride ragazze in super mini shorts e t-shirt scollatissime. L’albergo è confortevole come un rifugio alpino, un mammuth ben scolpito occhieggia invitante davanti all’ingresso. Una piazza sul lungofiume ospita la chiesa, il consueto palazzo governativo in stile neoclassico, il monumento a Lenin (ce n’è uno in ogni piccolo centro lungo lo Jenisej, i siberiani non si sono ancora dimenticati di lui). C’è anche un bellissimo museo sia architettonicamente parlando che per i contenuti che riguardano la storia dell’insediamento. Il suo “pezzo” più bello è una grande opera di realismo socialista: un quadro munumentale in cui si vedono i commissari politici sovietici che presentano un ritratto di Lenin al consiglio tribale dei nativi Nganasani.
Caso vuole che a Dudinka si stia svolgendo il Festival d’Estate dei Nganasani: su di loro qualcosa ne so, sono il gruppo più settentrionale della grande famiglia dei Samoiedi, da sempre cacciatori nomadi, pescatori e allevatori di renne nel territorio della penisola del Taymir di cui Dudinka fa parte. Dal XVII secolo hanno resistito ad ogni tentativo di cristianizzazione da parte dei missionari ortodossi e dei funzionari governativi zaristi, conservando tenacemente usi e costumi basati sui culti sciamanici. Li frega proprio Lenin o meglio i funzionari sovietici che in nome dell’ateismo comunista vogliono estirpare la religione sciamanica: gli sciamani, veri padri spirituali e maestri di vita, vengono arrestati e deportati. Ai Nganasani è come aver estirpato l’anima, si lasciano costringere in villaggi stabili dove vengono decimati dalle malattie e, soprattutto, dalla piaga del alcol. Oggi mi risulta che nel Taymir i Nganasani siano meno di un migliaio di persone. Non posso mancare, ora che sono qui, di andare a conoscerli. Il Festival d’Estate si svolge a ridosso della città in una tundra costellata di pozze d’acqua che mi ricorda che siamo sul permafrost, ci sono veri e propri laghetti in cui i ragazzi sguazzano e fanno il bagno. Sventolano una marea di bandiere, tutte giallorosse, mi chiedo se i Nganasani siano tifosi della Roma (scherzo, naturalmente…). C’è un grande palco dove si esibiscono gruppi nei costumi tradizionali che sono bellissimi e colorati, bordati di pelliccia, alcuni di pelle altri di stoffa felpata, i colori dominanti sono il bianco, il rosso, il verde, il turchese, tutti gli abiti sono ricamati. Le donne circondano il capo con strisce di stoffa colorata e ricamata, grondante perline. Sono bei volti dai tratti mongolici evidenti ma non marcati, gli zigomi alti, gli occhi leggermente allungati, i sorrisi smaglianti. C’è un sacco di gente, nativa e non nativa che circonda il palco e sciama fra le bancarelle che vendono souvenir, oggetti artistici, colbacchi di pelliccia, infusi e marmellate di erbe e bacche e c’è un bancone pieno di soffici pellicce di animali artici.
Sul palco si susseguono le esibizioni, soprattutto di gruppi femminili che cantano e danzano. Vedo un cippo commemorativo con una scritta in cirillico e la data 1667: presumo che sia l’anno in cui i Nganasani sono entrati in contatto con i primi Russi. All’improvviso cala il silenzio, cessa ogni vociare, ogni musica: sul palco tre Nganasani battono i tamburi sacri degli sciamani, danzano un ritmo lento e ipnotico mentre cantano una nenia che deve essere antica come il mondo. Sento i brividi scorrermi lungo la schiena. L’accampamento si estende nella tundra, fra le pozze d’acqua e i cespugli emergono le capanne coniche fatte di pertiche ricoperte di pelli, con l’apertura sfiatatoio in alto che deve stare a perpendicolo sopra il focolare. Sono le capanne che i nativi americani chiamano tepee e qui chiamano chum. Mi fa sorridere ‘sto fatto che mi trovo nell’Artico russo e sto vedendo un accampamento indiano identico a quelli che ho visto nel Sud-Ovest americano. Realizzo che il Festival d’Estate dei Nganasani è del tutto uguale ad un pow-wowdelle tribù native d’America, la prova visiva che si tratta della stessa gente. Penso al popò di camminata che si sono fatti i siberiani che hanno attraversato lo stretto di Bering ghiacciato ed hanno popolato l’America fin giù alla Terra del Fuoco. Gironzolo fra le tende camminando sulle assi di legno poste sul terreno intriso d’acqua: in ogni tenda sei accolto come ospite e ti offrono qualche leccornia, vedo gli stessi totem che ho visto in America, gli stessi scudi, le stesse lance, gli stessi archi e frecce, le stesse maschere rituali, gli stessi feticci caccia spiriti maligni. Mi siedo su un tronco trasformato in panca, i piedi inevitabilmente a mollo. Un bambino Nganasan, avrà quattro o cinque anni, mi piomba allegramente addosso, si pone a cavalcioni su di me e ridacchiando tutto contento comincia a tirarmi la barba, mi fa dei ganascini, mi tamburella le mani sul cranio pelato. Un’anziana matrona vestita di un ricco e bellissimo abito tradizionale si avvicina, trae di tasca uno smartphone di ultima generazione e scatta foto a ripetizione mentre il pargolo Nganasan mi martirizza felice. Ecco fatto! Per loro quello “esotico” sono io. Sento lontana la sirena della motonave che parte e ritorna su per lo Jenisej. Ciao Valery Chkalov.