KAMCHATKA: IMPRESSIONI FUORILINEA

 

Testo di Leandro Lucchetti e foto di Piero Bosco

Kutkh, il dio corvo, vola nei cieli sopra la Terra e mentre vola perde una penna. Gigantesca è la sua penna che cade nell’ oceano mare, mette radici mentre galleggia sulle onde, solidifica e diventa terra a sua volta. Allora, attratta come da una calamita, si unisce alla immensa terra che già esiste, percorsa dai misteriosi uomini della taigà, i Sabiri: la terra che verrà chiamata Siberia. La penna di corvo solidificata forma una penisola che va a dividere l’oceano che Magellano chiamerà Pacifico dal mare interno che verrà detto di Ochotsk dal nome dell’insediamento dei cosacchi colonizzatori che provenivano dalla Russia ed erano arrivati sulla costa estremo orientale della Siberia.
Kutkh non è un dio da poco perché è il corvo che col battito delle sue ali sgombra il campo da ogni possibile ostacolo e consente al Sole di sorgere, bello pulito e splendente, ad ogni alba del giorno. Gli piacciono le donne e ne ha creata una per sé di tale divina bellezza che gli uomini se ne innamorano perdutamente anche al solo pensarla. Gli uomini bruciano di passione per lei, l’ inarrivabile beltà, diventano vulcani, cuori solidificati che palpitano di magma e quando non ne possono più eruttano tutta la passione e il fuoco che non possono contenere.
E’ così che se la cantano Kamchadali e Coriachi, nativi della Kamchatka.
I Kamchadali, detti anche Itelmeni, non esistono più se non come gente, pochissima, meticciata con i Cosacchi che prima li hanno sterminati e poi si sono presi come mogli le poche donne superstiti. I Coriachi, invece, popolano ancora la parte settentrionale della penisola nata da una penna di Kutkh, il dio corvo. I vulcani sono l’ossatura della penisola, la sua spina dorsale e sono circa 160, 29 dei quali ancora attivi, un parco naturale che l’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità fin dal 1966 e che attira viaggiatori affamati di wilderness in numero sempre maggiore.

Può capitare che sali su un elicottero di quelli che usavano le truppe d’assalto sovietiche in Afghanistan, adesso bellamente dipinto di arancione acceso con bande azzurro intenso, e sorvoli questa parte del cosiddetto “Cerchio di fuoco”, l’area dove si concentra il 90% dell’energia sismica mondiale. Se il cielo è generoso e la visuale è buona ti trovi ad osservare UNO SPETTACOLO UNICO AL MONDO scritto tutto in lettere maiuscole e ti pare che non sia solo l’elicottero a vibrare ma anche il corpo tuo per l’emozione. I coni vulcanici, muti o fumanti, sono piccoli, grandi, grandissimi, alti, larghi, stretti, tutti diversi uno dall’altro, ognuno con le sue rughe, le colate laviche scivolate sui fianchi come dense lacrime di fuoco poi solidificate in pietra nera o grigio ferro, solcate profondamente dai ghiacci che premono d’inverno e d’estate restano strisce di bianco incastonate nella lava come gioielli in un anello. Muschi e licheni emergono tra lava e ghiaccio conquistandosi spazi verde pallido che ingentiliscono la severità scabra di tale primordiale natura. Alla base dei vulcani i boschi millenari formano invece un tappeto verde intenso da cui i coni emergono -non puoi fare a meno di pensarlo anche se sai che è una sciocchezza- come torte di un pasticcere sopraffino, forse un regalo di Kutkh, il dio corvo, alla sua donna creata di indicibile bellezza.
Alcuni crateri celano piccoli laghi di un verde fulgente: è come se un dente cariato avesse uno smeraldo per otturazione. I raggi del sole ne traggono barbagli iridescenti, è un’acqua seducente ma non è acqua…è acido solforico…lì dentro la tua carne semplicemente si dissolverebbe, un brivido di paura si risveglia senza motivo. Né le emozioni finiscono qui: il pilota dell’elicottero, un ucraino che sa il fatto suo, veterano dell’Afghanistan, se le condizioni atmosferiche lo consentono, nel vulcano ti ci porta dentro. Mutnovskij è il vulcano attivo che meglio si presta a quest’avventura, sobbolle di fanghi eruttanti, di fumarole, di zolfare, di sorgenti caldissime, il cratere è un piccolo mondo infernale dentro il quale l’elicottero si può adagiare sui detriti lasciati dalle precedenti eruzioni.

Metti che sei arrivato a piedi sull’orlo del cratere, molti camminatori lo fanno: vedi l’elicottero dapprima fermo sopra di te come sospeso sull’abisso poi la macchina volante cala impressionante come un dinosauro alato che va a ghermirsi la preda e scompare tra i fumi come se Vulcano stesso, il dio che nei crateri ci lavorava con la sua fucina per forgiare metalli, lo avesse afferrato per trarlo a sé. Ma è solo un attimo, suggestione fugace: le pale dell’elicottero squarciano i fumi che schizzano via, scaraventati di qua e di là, brandelli bianco sporco che scoprono il fondo del cratere dove la macchina volante si adagia e si è fatta così piccola che ti sembra niente più che un insetto colorato di arancione e di azzurro, un’ultima visione prima che i rotori fermi consentano ai fumi di avvolgere di nuovo tutto in una nebbia vaporosa mossa da soffi d’aria interni che scoprono e coprono il giardino primordiale della terra ai suoi albori, coprono e scoprono, ricoprono e riscoprono….
Metti che in quell’elicottero ci stai a bordo e fai voto che il pilota sappia per davvero il fatto suo come ha dato a vedere. Quasi non ci credi che ti ha portato proprio dentro il vulcano, oltre i finestrini vedi solo fumo, ti chiedi: “E adesso che succede?”
Succede che il portello si apre e una zaffata che sa di zolfo ti pizzica il naso, scendi la scaletta e posi le scarpe su un terreno che ti sembra un po’ molle e tiepido, uno spiffero che viene chissà da dove sgombra la visuale e scopre ai tuoi occhi che lacrimano appena un po’ un paesaggio che se ti piacessero gli stereotipi dovresti definire “dantesco”: invece lo trovi fascinoso, bello di una bellezza austera e appagante. E’ così che mi sono sentito io mentre vagavo nella pancia ribollente di Mutnovskij, appagato. Sarà il calore piacevole che ti compenetra, si potrebbe definire “termale”, i fumi che ti avvolgono come in un bagno turco, lo zolfo che inali e ti sballa quasi da “spinello”, fatto sta che mi sono sentito invadere da un gran senso di pace, mi sono sentito sicuro, cullato nel grembo di terra madre. Il vulcano, invece di incutere paura, ti accoglie e ti inebria un poco. Cammini fra le caldere di fango borbottante, non resisti alla tentazione di immergervi una mano e scopri che scotta ma non così tanto, potresti spogliarti nudo, lasciarti cadere dentro e fare la sauna naturale più bella della tua vita, i “fanghi” più salutari: ci ho pensato per davvero…ma mi è mancato il coraggio di farlo. I cristalli di zolfo, non a caso chiamati “fiori”, impreziosiscono il terreno e le rocce, perderesti ore ad esaminarli uno per uno per esaminarne le perfette geometrie, per coglierne i bagliori sempre diversi, per sceglierne il più bello ma è impossibile perché sono tutte bellissime opere d’arte della natura. Lo zolfo forma anche piccoli vulcani di bianco cristallo all’esterno e gialli in purezza all’interno, scrigni che contengono gioielli…e ci sono piccole grotte di zolfo i cui cunicoli mostrano tutte le sfumature di giallo possibili e anche quelle impossibili che mai avresti creduto potessero esistere. E ci sono gli sbuffi di acqua bollente, micro geysers che pensi potrebbero essere piccole fontane per abbellire un giardino, ci sono le sorgenti di acqua calda e c’è un ghiacciaio, sissignore, anche se può sembrare incredibile: se ne sta adagiato su un costone interno e da vita a un torrentello che va a perdersi chissà dove nelle viscere del vulcano, l’acqua diaccia sfrigola e sbuffa e si lamenta venendo a contatto con le sorgenti calde. Sei preso come da incantamento (o sonnolenza?), lo zolfo ti fa come se avessi bevuto un po’ troppo e mica te ne vorresti andare…anzi vorresti distenderti su quei detriti così “teporosi” e farti un sonno ristoratore, hai idea che sarebbe proprio bello…ma qualcuno ti chiama, apri gli occhi, vedi le ombre dei tuoi compagni d’avventura che si muovono tra i fumi e s’incamminano verso quel grande insetto appollaiato un poco più in alto su un terrapieno naturale avvolto da fumarole, l’elicottero di cui ti eri scordato, il pilota che sa il fatto suo e dice che è ora di tornare.

Per la Storia un cosacco siberiano che si chiama Vladimir Vasilevic’ Atlasov è il primo russo che esplora la penisola nata dalla penna del dio corvo alla testa di una masnada di 65 Cosacchi e 60 Jukaghiri (nativi siberiani della Kolyma). E’ l’anno del Signore 1697 e Atlasov costruisce due fortini sul fiume Kamchatka che, oltre a dare il suo nome all’intera penisola, si può dire ne costituisca la spina dorsale scorrendo per 758 chilometri fra i vulcani per sfociare nell’Oceano Pacifico. I due fortini diventano basi per i cacciatori di pellicce russi e così Atlasov può non solo portare allo Zar Pietro le più preziose pellicce, non solo i tributi dei nuovi sudditi, i nativi Coriachi e Itelmeni, ma può anche fargli la più entusiastica descrizione della natura così particolare del territorio che ha praticamente conquistato per lui. Lo Zar lo premia facendolo governatore della Kamchatka ma l’avventuriero cosacco cade in disgrazia e finisce in galera accusato di rapinare le carovane dei mercanti di pellicce. Viene poi riabilitato e riprende il suo posto di governatore per finire ammazzato durante una rivolta nel 1711.
Circa 30 anni dopo lo Zar Pietro, ormai per tutti il Grande, vuole scoprire se esiste un collegamento tra Asia e America ed incarica un danese originario dello Jutland che si chiama Vitus Jonassen Bering di dare una risposta al quesito. Il danese, salpa da Ochotsk al comando di due vascelli battezzati San Pietro e San Paolo, attrezzati per quanto lo consentivano le conoscenze del tempo per navigare i mari polari, siamo adesso nell’anno del Signore 1740. Mentre costeggia le aspre scogliere della Kamchatka Bering individua in una baia su cui torreggia la piramide fumante di uno spettacolare vulcano il sito adatto ad impiantare una base che gli tornerà utile al ritorno dal suo viaggio di esplorazione che si prospetta faticoso, pericoloso e gravido di incognite.         Ma Vitus Bering non tornerà mai più indietro dopo aver navigato il mare che sarà chiamato di Bering e individuato lo stretto che anch’esso sarà chiamato di Bering, non tornerà perché il suo corpo giacerà per sempre, insieme a 18 uomini del suo equipaggio, su un’isola sperduta del mare artico che sarà inevitabilmente chiamata Isola di Bering. Un mistero artico? Forse sì: si è sempre creduto che Bering e i suoi fossero morti di scorbuto ma recentemente una spedizione scientifica ha riesumato i resti, li ha fatti analizzare e le analisi hanno decretato che Bering e i suoi erano sanissimi e che le cause della morte restano imprecisate. Quel che è certo è che la base fatta costruire da Bering è oggi Petropavlosk-Kamchatskij, così chiamata dal nome dei due vascelli dedicati a Pietro e Paolo, capoluogo della Kamchatka, una città portuale che si adagia ai piedi del vulcano Avacinskij, distesa sulla riva della grande baia. E’ oggi una città grigia e tristanzuola, d’aspetto decisamente sovietico: Kutk, il dio corvo, la considera di certo una sorta di caccola schifosa che si è appiccicata chissà come alla sua serica penna perduta. Però se vento e sole scacciano le nuvole e rivelano l’azzurro del cielo scoprono anche il bianco cono del vulcano Avacinskij che sembra un meraviglioso fantastico cippo monumentale posto a protezione della città. Sì, questo vulcano dal potenziale distruttivo senza misura ti da invece l’impressione di essere un totem ancestrale, il gigante buono che ti protegge e infonde sicurezza. Se poi ti avventuri sulle banchine del porto allora l’atmosfera cambia ancora e ti sorprende ma la sorpresa non è poi così sorprendente perché ormai l’hai ben capito che tutto in Kamchatka sorprende. Un flah-back esplicativo? Il mercato del salmone in città: un edificio impersonale ed asettico come un ospedale, corridoi lindi e freddi illuminati da neon giallastri che dell’ospedale evocano la parte adibita ad obitorio epperò i banchi metallici, asettici così tanto che sei pressocché sicuro che mai oserebbe pascolarci un microbo o un virus, ospitano non già umani cadaveri ma salmoni, interi, a trance, sfilettati, alcuni freschi altri congelati altri affumicati, tutti salmoni selvaggi, nobili e meno nobili perché scopri qualcosa che non sapevi o su cui non ti eri mai soffermato prima e cioè che i salmoni non sono tutti uguali, non sono salmoni e basta, ce ne sono di vari tipi, famiglie e speci, ognuna ben catalogata per valore gourmet, nel senso del gusto e della pregevolezza delle carni che ne determinano anche il valore commerciale e il conseguente prezzo per gli acquirenti. Così donne e uomini impeccabili in cuffia e guanti, eleganti in giacche e pantaloni azzurro cupo o grembiuli dello stessa tonalità non sono infermiere e infermieri ma coloro che amministrano i banchi e servono i clienti. Sei curioso perché è la prima volta che vedi qualcosa del genere e ti sorprendi a scoprire le varie sfumature di colore che caratterizzano le diverse specie di salmoni, non certo tutte uguali come nelle confezioni dei nostri supermercati ma varianti in differenti tonalità che vanno dal rosa pallido al rosso vivo. Uniche intruse le aringhe cui nessun russo rinuncerà mai così come noi non rinunceremmo agli spaghetti o alla pizza. Fuori -e ti spunta un sorriso- donne di campagna vendono ortaggi, cipolle e cavoli, verze e cetrioli, una specie di cicoria, porri e rape, carote e grosse zucchine dall’aspetto fallico e persino ravanelli. Ti chiedi come fanno con questo clima perché anche se siamo alla stessa latitudine della Gran Bretagna la penisola Kamchatka è percorsa da freddi venti artici che calano giù dalla Siberia e le coste sono lambite da una gelida corrente marina denominata Oyashio (è giapponese e significherebbe qualcosa come “corrente padre o paterna”), insomma fa freddo sul serio e la terra è coperta di neve da ottobre a fine maggio. Intanto una vecchina ti offre un ravanello da assaggiare, è rosso pallido con sfumature biancastre ma è succoso, quasi dissetante, non sapido come i nostri però delicatamente profumato.

Ma torniamo alle banchine del porto: passi sotto gru rugginose che hanno tutta l’aria di non essere più in funzione da secoli, tra carcasse di camion e conteiners abbandonati che ti danno l’impressione di essere residui di un qualche esodo di profughi, lungo le banchine sono attraccati, uno accanto all’altro come in un ordinato parcheggio dove nessuno torna a riprendere il suo, battelli e pescherecci uno più arrugginito dell’altro, sembrano da rottamare. Non sono così gli sfasciacarrozze che stanno sul raccordo anulare di Roma? Oppure è il set catastrofico di un cimitero di navi ustionate da chissà quale cataclisma? L’impressione è fallace, questi rottami tengono perfettamente il mare: basta buttare l’occhio sulla vasta baia e vedi pescherecci in tutto simili a questi che diresti da buttare via i quali solcano l’onda con sicurezza mentre rientrano dalla pesca tirando su un’ultima volta la rete piena di pesce. Stormi di gabbiani impazzano eccitati sopra la barca che pare rattoppata e invece non si cura dell’estetica, semplicemente questo, vecchia barca di cento battaglie su cui i pescatori si sentono a casa e su cui argani e verricelli funzionano alla perfezione, questo conta e chissenefrega se l’aspetto non è dei migliori. I gabbiani se la godono ma può succedere che un’ombra oscuri il loro cielo, un battito d’ali possenti li scompagina e devono lasciare il campo facendo corona al signore come devoti vassalli. Adesso sopra il peschereccio vola un rapace di grandi dimensioni che colpisce per il suo aspetto, così scuro che sembra nero ma bianche striature lo colorano, bianca la fronte regale, bianche le cosce possenti e le spalle e la parte terminale della schiena o meglio il coccige, anche gli uccelli ce l’hanno e si chiama codrione, bianca la coda come una spruzzata di neve: è l’Aquila di mare di Steller.

Chi è Steller? E’ il naturalista tedesco che ha descritto per la prima volta questo grande rapace della famiglia degli Accipitridi. Georg Wilhelm Steller aveva fatto parte della spedizione Bering ed era sopravvissuto per raccontare al mondo che il signore dei cieli della Kamchatka è un’aquila striata di bianco che piomba giù dal cielo come un castigo di Dio e arpiona con potenti artigli pesci di grandi dimensioni che si porta via come se non avessero peso. Per chi è incuriosito dai difficili nomi scientifici l’Aquila di Steller appartiene al genere Haliaeetus e la sua denominazione è Haliaeetus pelagicus Pallas. Pallas? E mo’che c’entra, questo chi è? Ve lo state chiedendo, lo so. Peter Simon Pallas è il biologo, zoologo e botanico tedesco che tra la fine del 1700 e il principio del 1800 intraprese una serie di spedizioni scientifiche in Siberia a caccia di meteoriti caduti nella taigà e nella tundra e mentre cercava gli capitò di essere il primo a scoprire i resti di un Mammut. Tra una spedizione e l’altra ha dato il suo nome a una serie di specie, fra le quali, oltre all’Haliaeetus pelagicus, il Felis manul che poi sarebbe il gatto selvatico delle steppe. Per curiosità più spicce dirò che l’Aquila di mare di Steller è per massa corporea la più grande aquila al mondo e che la femmina è più grande del maschio. Le coste della Kamchatka sono il suo habitat naturale, qui nidifica per spaziare sul mare di Bering e sul mare di Ochotsk, qui trova le sue risorse alimentari. Vederla in volo a rasentare le onde è uno spettacolo ma la vedi anche volteggiare in alto sugli anfratti di roccia più nascosti e se ti capita di coglierla appollaiata su una guglia aguzza a picco sul mare ti sembra un monumento alla natura e pensi che forse persino Kutkh, il dio corvo, possa essere colto da invidia. L’Aquila di mare di Steller ha gusti raffinati e si nutre preferibilmente di salmoni, i suoi ristoranti preferiti sono le imboccature dei fiumi dove i salmoni si ammassano per risalire la corrente e andare a riprodursi ma se hanno appetito non disdegnano i merluzzi e le aringhe e mangiano crostacei, granchi e calamari, si divertono a catturare animali terrestri come topi e scoiattoli e se vogliono dar prova di forza e abilità afferrano con gli artigli visoni e marmotte e attaccano con sicuro successo anatre e gabbiani in volo. I suoi più accaniti cacciatori sono i fotografi, professionisti e dilettanti, che cercano di inquadrarla nel mirino alla ricerca della foto “bingo”, quella che la fissa nel gesto suo più bello e definitivo, quando ad ali spiegate estrae dall’acqua il pesce arpionato dagli artigli e pare sospesa immobile, ieratica come un’icona.

Attenzione! Adesso sparo un altro nome scientifico: Ursus arctos beringianus.
In verità è questo l’attore preferito di documentaristi e fotografi naturalisti che bazzicano in Kamchatka, una bestia che se si alza in piedi ti accorgi che è alta poco meno di 3 metri e chi se ne intende dice che può pesare anche 700 chili: è l’Orso Bruno della Kamchatka, una sottospecie di orso bruno. Nella penisola ce ne sono in numero che varia dai 15 mila ai 30 mila individui e questo ha fatto nascere l’imaginifica definizione di “Stato degli orsi”, pertinente perché in nessun’altra parte del mondo esiste una così densa concentrazione ursina. Faccio notare che il nome scientifico dice beringianus, cioè di Bering: è probabile che l’appellativo non si riferisca tanto alla persona dell’esploratore quanto alla zona geografica che è habitat dell’orso ma sta di fatto che il nome Bering permea di sé questa parte di mondo. Bene, fatta questa inutile puntualizzazione, c’è da dire che esiste un set naturale dove il nostro “simpatico” plantigrado da il meglio di sé come attore: è un lago dove nel periodo della deposizione delle uova si riversano a milioni grassi e succulenti salmoni. Avrete di sicuro partecipato almeno una volta ad una di quelle sagre paesane che offrono in degustazione i prodotti naturali del luogo: ebbene questa è “La sagra del salmone del Kuryl” dove ad abboffarsi di salmone fresco non siamo noi ma gli orsi bruni della Kamchatka che usano come forchetta i loro artigli. Il lago Kuryl lo si può raggiungere solo in elicottero. Ne prendi uno a Petropavlosk-Kamchatskij e quello dopo un’ora di volo ti molla nel luogo dove per l’occasione c’è la maggior concentrazione di orsi bruni in Kamchatka che già di suo è il territorio dove c’è la più grande concentrazione di orsi bruni al mondo. Niente strade vuol dire nessun veicolo, ci sono due rifugi protetti da barriere elettrificate, il telefonino non ha campo e gli orsi sono così tanti che sei autorizzato a muoverti solo accompagnato da un ranger armato di carabina. La tua arma è la macchina fotografica o la cinepresa e dunque via a caccia di immagini, è assai probabile che non ti capiterà più nella vita di avere tanti orsi a disposizione, attori naturali che si muovono come se tu non ci fossi, ignari di regalarti così tante emozioni da catturare in uno scatto o in una sequenza di fotogrammi (ma alcune volte pare proprio che invece sappiano benissimo che stai lì a fotografarli e diresti che si mettono in posa con gli artigli che sfilettano il pesce appena catturato oppure uno si mette a correre nell’acqua per prendere al balzo fra gli spruzzi un salmone in maniera che gli finisca direttamente tra le fauci; può essere perfino che due maschi si mettano a lottare fra di loro come se volessero farsi ammirare per quanto sono forti e nel tuo obiettivo cogli immagini così emozionanti che ti tremano le mani mentre scatti).

Ma è giunta l’ora di montare in barca, un battello solido e spartano dipinto di blu che si chiama Kathleen, inalbera bandiera russa e fa garrire per cortesia anche il tricolore italiano. Perché Kamchatka è una penisola e ci sono le sue coste da scoprire. Le flagella e le scolpisce un mare spesso grigio e corrusco che diventa intenso di blu quando splende il sole. Allora si riflettono nell’acqua rocce scoscese che i minerali affioranti colorano di rosso, di bruno, di giallo, di verde, di grigio azzurro: una tavolozza che pare pronta per un pittore impressionista che si appresti a dipingere. Le stesse rocce aspre fatte di aguzzi promontori e pinnacoli e spaccature e anfratti e canne d’organo su cui irrompe il mare quando è inquieto e frange onde furenti che schiumano rabbia. Da questo mare sorgono obelischi, monoliti rocciosi che sembrano relitti di epoche antidiluviane e invece ti accorgi che sono grattacieli abitati: il vento e le intemperie hanno scolpito la roccia ricavando piccoli anfratti come loculi, ogni loculo una cuccia dove alloggia un gabbiano, un Gabbiano della Kamchatka naturalmente. Sono veri e propri condomini di uccelli dove il guano sembra neve che ingentilisce la nera roccia lavica. Alcuni di questi faraglioni sono così familiari al paesaggio e ai naviganti da essere considerati quasi come persone, per esempio i cosiddetti “Tre fratelli”, tri brata in russo, che fanno da sentinelle nella baia Avacinskaja e ricordano un poco tre orsi in piedi. Le baie si aprono all’improvviso tra i muri di roccia a picco sulla cui sommità verdeggiano tappeti di erba folta e rasa come se fosse appena passato il giardiniere, porte che si aprono per farti godere la vista dei vulcani nel pieno fulgore di un panorama che non ha eguali. Le baie sono anche sicuri porti naturali dove puoi ancorarti per la notte e la mattina dopo effettuare scorribande in gommone per esplorare gi anfratti dove nuotano le lontre marine e le foche maculate si stiracchiano pigramente al calore di un unico raggio di sole che penetra tra le rocce mettendo in luce le macchie irregolari scure, quasi nere, che picchiettano tutto il corpo grigio chiaro, quasi bianco, e insomma è pressocché inevitabile definirle scherzando foche a pois. Su un magma di rocce laviche, lucide e nere, i leoni marini osservano sornioni chi sei e cosa diavolo fai col tuo gommone e se ti avvicini troppo si tuffano in mare sbuffando con l’aria di dire ma proprio qua dovevi venire a rompere le scatole e ti nuotano intorno guardanti di sguincio con i grandi occhi e quando si rendono conto che non hai cattive intenzioni risalgono con imbronciata fatica sulle rocce e lì si distendono offrendosi con sdegnosa noncuranza agli scatti delle macchine fotografiche. Nelle grotte scavate dai marosi aleggia il mistero e ci entri col gommone con la segreta speranza di poter finalmente intravvedere il Granchio Gigante della Kamchatka, il suo carapace rosso scuro, le 5 appendici che possono essere lunghe oltre un metro e mezzo, la strana coda a forma di ventaglio, le due chele enormi e forse hai l’acquolina in bocca perché sai che il mostro cela carni bianchi deliziose che hanno una valutazione 5 stelle Michelin.      Il gommone scivola fuori dall’antro seguendo la luce, ritrovi il mare intensamente blu e in quel blu galleggia quel che sembra un giocattolo per bambini, una Pulcinella di mare: Fratercula il suo nome scientifico che suona accattivante. Passa l’inverno in mare ma nidifica in terra in tane che preferibilmente frega a qualche roditore e se proprio non trova niente di meglio si scava da sola usando il forte becco triangolare che appare piatto se visto di lato e invece affinato se visto di fronte; questo lo sai perché l’hai letto ma adesso devi scoprire che Pulcinella è questa… perché di questi uccelli che popolano la Kamchatka ce ne sono di due specie. Dunque vediamo, becco rosso che spicca sulla faccia bianca che pare di biacca in cui gli occhi sembrano truccati di ombretto scuro, sulla fronte una linea nera che dagli occhi passa per la nuca e scende lungo il collo fino a sfociare nel resto del corpo tutto nero anche lui, di lato alla linea nera partono due ciuffi bianchi che paiono un’acconciatura di parrucchiera, eccola dunque individuata: è una Pulcinella dai ciuffi, Fratercula cirrhata l’ha catalogata quello stesso Pallas che ha catalogato l’Aquila di mare di Steller, sotto l’azzurro del mare spiccano le zampe rosse che remigano piano. Bene, sei soddisfatto per averla saputa riconoscere, adesso ti resta di vedere, prima o poi, l’altra Pulcinella che abita questi mari e queste coste, la Pulcinella dal corno. Quella nera sopra, bianca sotto, col becco giallo e rosso e un piccolo corno nero sopra gli occhi, Fratercula corniculata l’ha catalogata Johann Friederich Naumann, tedesco considerato il padre dell’ornitologia scientifica in Europa. Le Pulcinelle di mare con le corte alette nuotano sott’acqua a caccia di pesciolini e zooplancton, quando riemergono e vogliono decollare dalla superficie del mare devono battere le alette così velocemente da raggiungere 400 battiti al minuto circa. Inutile dire che gli obiettivi delle macchine fotografiche le inquadrano più che volentieri.

Quando ti accorgi che la luce del giorno sta per svanire e i raggi del sole stazionano ancora soltanto sulla parte superiore dei coni vulcanici, traendo barbagli persino violenti dalle nevi di ghiaccio che fanno corona ai crateri, è ora che Kathleen, la tua barca, cerchi riparo fra le braccia accoglienti di una baia tranquilla. E quale baia più adatta di quella dove è di stanza una piccolo presidio dell’Armata Rossa? La guarnigione è piccola per davvero… la compongono due soldati due, un sottufficiale e un graduato. Soli nella solitudine sono in contatto col mondo grazie all’apparecchio rice-trasmittente che funziona alla perfezione. Il presidio è qui per controllare una copiosa sorgente che fa in tempo a diventare ruscello nei pochi metri che le restano per riversarsi nelle acque della baia. E’ un riferimento importante nelle inospitali e quasi sempre impervie coste per barche, battelli e navi anche di notevole stazza, giacché la baia è profonda, che abbiano bisogno di rifornirsi d’acqua. Lo sbocco a mare della sorgente è protetto da una paratia metallica rosseggiante di antiruggine scrostata come il fianco aperto di una nave diventata relitto sulla spiaggia ciottolosa. L’acqua sorgiva sgorga in libertà ma una chiusa, messa in funzione quando serve, la convoglia in un grande manicotto che viene agganciato alla bocca del serbatoio della nave assetata e le da da bere riempiendole la pancia di purissima acqua di fonte.
Nella caserma che è una baracca surriscaldata da una stufa non si beve acqua ma “acquetta” cioè vodka. Il sottufficiale comandante, barbuto come un kulako uscito da una pagina di Toltstoj, non aspetta altro che avere ospiti per rompere la monotonia del suo servizio. La monotonia si dissolve con bottiglie di vodka vuotate ad un ritmo che dirlo velocissimo ancora non rende bene l’idea e con secchiate di gamberetti crudi. Secchiate, ho detto così ed è il termine giusto: i gamberetti riempiono secchi che il graduato porta fuori da un ripostiglio frigorifero insieme alle bottiglie di vodka, riserva che pare non avere fine. I gamberetti sono deliziosi, si squagliano in bocca e la vodka pulisce la lingua scivolando morbida al palato. Mentre sei ancora lucido fai in tempo a pensare che una cenetta così, a base di freschissimi delicati gamberi ad libitum e vodka ad libitum lei pure, costerebbe in qualsiasi ristorante di Roma o Milano una cifra da salasso al portafoglio…intanto il sottufficiale parla e parla, in russo naturalmente, non capisci una mazza e l’interprete, intento come tutti a mangiare gamberetti e a bere vodka, ha poco voglia di tradurre. Presto il russo in cui il sottufficiale racconta chissà cosa, forse avventure passate o ricordi d’amore, ti suona come una musica scandita dai continui brindisi, i gamberetti ti riempiono la bocca di sapore e la vodka scende come un digestivo per far posto a gamberetti ancora. Hai imboccato la via serena della sbronza ma la stufa e “l’acquetta” che ti circola nelle vene hanno sviluppato un caldo che non sopporti più e devi uscire dalla baracca per prendere un poco d’aria fresca di Kamchatka. Trovi che la baia è magica, soffusa di luce lunare, nel cielo stelle a millanta, la sagoma del vulcano che chiude la baia sembra disegnata col pennarello, sbrilluccica la cima innevata, che vulcano è questo? Diciamo che sei piuttosto annebbiato di mente e ti hanno detto i nomi di un sacco di vulcani, tutti nomi russi complicati, dunque vediamo…questo vulcano qui deve essere, deve essere…il vulcano Vilucinskij, sì è lui, ci scommetto! Butti l’occhio sulla baia argentata, due grandi pinne aguzze viaggiano quasi parallele, una leggermente più avanti dell’altra, solcano l’acqua d’argento, poi un corpo nero striato di bianco s’inarca, emerge e sinuosamente si immerge. Lo stesso fa l’altro corpo, bianca la sommità della testa, nero il dorso, il compagno o la compagna: due orche, le stesse, forse, che per ore durante la giornata, abbiamo viste evoluire davanti e dietro la Kathleen come se eseguissero un gioco che le divertiva alquanto. Adesso nuotano nella baia, le pinne fuori ti pare ondeggino come vessilli e benché tu non sia certo lucido ti rendi conto che stanno andando su e giù per la baia, avanti e indietro, come se fossero nella loro piscina, avanti e indietro, una vasca dietro l’altra come se si stessero allenando per chissà quale gara. Ti gira un poco la testa, guardi in alto verso la luna, un uccello nero, forse uscito dal cratere del vulcano, vola seguendo l’andare delle pinne delle orche, non può essere un’aquila di mare è troppo piccolo. Ma potrebbe essere…sì, un corvo, perchè no? Potrebbe… anzi è un corvo, è IL CORVO! Lui? Kutkh, il dio che ha perso una penna e la penna è diventata Kamchatka? Non sei lucido e tutto potrebbe essere nella notte magica, sballato di vodka. Barcolli e ti siedi, neppure sai su cosa, chiudi gli occhi e aspetti che finisca di girarti la testa.