CHUKOTKA: ALLA SCOPERTA DELLO STRETTO DI BERING

Racconti tratti dal libro “Matrioska” di Bruno Bocchi, introduzione e foto di Piero Bosco

Stretto di Bering, luogo mitico e leggendario, spesso celato da fitte nebbie e battuto da furiose tempeste, ricoperto dai ghiacci per 9 mesi l’anno, il solo citarne il nome evoca le imprese di grandi esploratori e tra queste anche quella dell’Italiano Giacomo Bove che fu qui con A.E. Nordenskjöld nel 1879. Non molto è cambiato da allora e questa parte di Chukotka rimane anche nel XXI secolo una terra estrema, brusca, estremamente difficile da raggiungere; la nostra spedizione ha impiegato circa una settimana solamente per arrivare al campo base! Pazienza e perseveranza, questa è la ricetta per accedere ad un mondo inconsueto e originale dove il turismo non esiste, dove le lunghe attese sono compensate da emozioni fortissime. Terra dove l’uomo ancora deve lottare per la propria esistenza; seguendo le mandrie di renne nella tundra infinita spostando il campo ogni volta che è necessario, oppure cacciando le balene a bordo di una minuscola barchetta, stringendo in mano un vecchio arpione, e rischiando la vita ogni giorno. Nulla è scontato in Chukotka, Yupik Eskimo e Chukchi vivono in perfetto equilibrio con la natura, hanno imparato a sfruttare la ricchezza che porta la breve estate artica, quando finalmente arrivano le balene grigie, i trichechi si riuniscono in grandi colonie, le scogliere sono colme di uccelli marini… E’ stato un privilegio ed anche una fortuna avere questi uomini eccezionali come mentori e guide durante la nostra avventura; è soprattutto grazie a loro se ora sappiamo un pò di più di questo mondo così lontano nel tempo e nello spazio!         

 

“Fumando una “papirosa”

Qualcosa continua a sbattermi sulla testa, spalanco gli occhi, mi sveglio. La tenda e la sopratenda sbatacchiano forte. Lo zaino, che funge da cuscino e da fermo, non è più al suo posto. E’ molto più in basso: molto probabilmente nel sonno l’ho tirato più vicino a me e così non zavorra più  e da via libera al vento. Mi siedo e vedo che fuori è chiaro. Esco dal sacco a pelo, infilo la giacca a vento, e in ginocchio mi dirigo alla porta dove apro le due cerniere lampo. Subito una folata di vento entra nella tenda e la gonfia. Richiudo una parte e mi accovaccio sull’uscio. Il sole non è ancora sorto ma i suoi raggi rischiarano il cielo dandogli un colore rosato e azzurrino. Il mare increspato è di un blu cobalto e le due braccia di terra brulle e montuose, che cingono il golfo, sono ancora scure. Mi hanno detto che guardando l’orizzonte a circa ottanta chilometri c’è l’Alaska. Non è neanche tanto distante. D’altronde la grande migrazione nel Nord d’America sembra che sia venuta proprio da qui, prima che lo stretto di terra, chiamato Beringia, che unisce i due continenti venisse sommerso dal mare. Mi guardo intorno, non c’è nulla, nessun rumore eccetto il sibilo del vento. Mi sporgo in fuori per vedere l’altra tenda. La vedo completamente appiattita al suolo, segno che i suoi abitanti devono essersi ritirati nel rifugio. Mi metto in ginocchio e, guardando oltre vedo quella di Piotr. E’ in piedi, anche se due lati sembrano opporre l’ultima strenua resistenza al soffio continuo di Eolo. Mi giro e guardo il rifugio è tutto chiuso e silenzioso, dal camino non esce il fumo, segno che la stufa è ormai spenta.
Peccato! Mi sarei fatto un caffé caldo. Ma la mia scorta viene in soccorso, ecco la mia bottiglietta di caffè… Mmmhh,  un bel sorso fresco fresco, come uscito dal frigorifero. Va bene così! Guardo l’ora, sono le cinque del mattino. Mi accendo una sigaretta e osservo la natura circostante. Un gabbiano mi passa vicino, lasciandosi trasportare dal vento. Non muove né le ali nè la coda o se lo fa è davvero impercettibile. Ne arriva un altro anche lui trasportato dal vento, sembrano giocare cullandosi senza alcuna fatica. Mi viene in mente il mio aquilone, chissà perché mai mi dimentico sempre di portarlo quando vengo in queste terre. Qui c’è sempre vento e grandi spazi e mi divertirei sicuramente a farlo volteggiare. Continuo ad osservare il volo dei due gabbiani e vedo che improvvisamente virano, portandosi sotto vento e, con un colpo d’ali, planano nel piccolo stagno che si è formato a ridosso del mare. Ora nuotano tranquilli e sembrano osservarmi. Mentre aspiro il fumo, scorgo con la coda dell’occhio qualcosa che si muove zigzagando nel tappeto erboso. Poi vedo che si alza in piedi e scopro che si tratta di uno “scoiattolino artico”. Mi guarda con le zampette anteriori unite, si riabbassa e mi viene incontro. Lo guardo e sorrido:
– Tu sei quello di ieri che hai preso il pane dalle mie mani. –
Mette in bocca qualcosa, gonfiando le guance, e si avvicina di più.
– Oggi non ho il pane. Devi aspettare più tardi. Comunque sei fortunato! Guarda quante cose hai da mangiare su questo prato, che peraltro sembra un tappeto disegnato dai mille colori. Piccoli fiori rossi, mirtilli neri, viola, licheni bianchi, fiori gialli, funghi di diversi tipi, piccoli, rotondi, con la cappella larga, e poi quante piantine. Ed il tutto a tua portata di zampette non più alte di cinque centimetri. Sai che gli uomini, invidiosi di questi meravigliosi colori, li hanno copiati per dipingere le loro case?-
– E’ vero! –
Mi giro e guardo il gabbiano.
– Sì è vero! Quando sorvoliamo le città, tutte le case sono colorate di rosso, blu, giallo. Le vediamo bene noi dall’alto. Ma perché le fanno con quei colori? –
– Ve l’ho detto, perché sono invidiosi e, siccome devono guardare per terra per vedere questi colori, preferiscono metterli sulle loro case, così li possono vedere camminando senza doversi chinare. Penso fra me “e per combattere la monotonia”.
Guardo lo scoiattolino e vedo che un altro, più piccolo, è sopraggiunto alle sue spalle.
– Non ingrassate troppo altrimenti dopo arrivano le volpi e vi mangiano. –
– Qui non ci sono più le volpi.- Mi risponde l’ultimo arrivato.
– Come non ci sono più? –
– Le hanno uccise gli uomini. –
Vedo che i gabbiani sbattono le ali e si beccano fra di loro. Poi uno dice:
– A noi non fanno niente gli uomini. –
– Già, perché non siete buoni da mangiare: sapete di pesce ed avete la carne dura. Però state attenti non è mai detto. –
– Cosa vuoi dire? –
– Beh! Niente di particolare… però mi ricordo che un certo Anton Checov scrisse un dramma, proprio intitolato “Il gabbiano”, dove un tizio portò ad una donna, di cui era innamorato, un gabbiano morto. E lei, quando lo vide, inorridita gli disse: “Perché l’hai ucciso?” e lui rispose “Per noia”. Quindi state attenti! Dagli uomini ci si può aspettare di tutto. –
I gabbiani confabulano fra loro, bisticciando come al solito.
Guardo lo scoiattolino che sta mangiando e gli dico:
– Qui di aquile ce ne sono? –
– Sono quelle che hanno le ali grandi, la faccia coperta, e battono una cosa che fa rumore? Una volta là, si gira e mi indica un punto. Ce n’era una che emetteva dei suoni e si muoveva, tentando di volare, ma non si alzava. Però non ci ha fatto nulla. –
– Quella non era un aquila. Sarà stato uno sciamano, che è un uomo-aquila. Non conoscete la leggenda? E’ una leggenda della vostra terra, della Siberia. –
– No! Ce la racconti? –
– Va bene. “Tantissimo tempo fa gli uomini vivevano felici, senza malattie né morte. Ma gli spiriti cattivi arrivarono sulla terra e cominciarono a tormentare gli uomini con questi flagelli. Allora gli dei decisero di mandare sulla terra un’aquila per aiutarli. Ma l’aquila non riuscì a farsi comprendere e ritornò dagli dei. Questi le imposero di ritornare sulla terra per donare al primo uomo che avesse incontrato il potere di “sciamanizzare”, ovvero di capire il linguaggio degli dei, degli animali, della natura. L’aquila ritornò sulla terra e vide in un bosco una donna che stava dormendo e viveva da sola. Si unì a lei e la fecondò. La donna mise al mondo un figlio, che fu il primo sciamano.”
Ecco perché l’avete visto come volare e cantare, suonando un tamburo, stava parlando con gli dei.
– Beh! Ora andate a mangiare. Ci vediamo dopo. Io rientro nella tenda a dormire ancora un po’! –
Mi corico nel sacco a pelo. Il rumore del vento sembra essersi placato, ma sento un suono ed un canto che giungono da lontano.
Già…  lo sciamano… forse è là nella baia di Sekliuk, nella Whale Bone Alley (il    viale delle ossa di balena) … E mi …. addormento.

“Figlie di Chukotka”

A Previdenia vengo invitato ad assistere ad uno spettacolo folcloristico nel “Palazzo della Cultura”. Ad attendermi, all’ingresso, ci sono delle ragazze con i loro costumi tradizionali. Alcune hanno vestiti in pelle con guarnizioni di perline ed adornati di pellicce, calzano stivali frangiati e portano, attorno alla fronte, una fascia di cuoio o pelle: a vederle sembrano le “squaw”, ovvero le donne dei nativi americani, che tante volte abbiamo visto nei film western. Altre vestono con abiti di stoffa a fiori, di foggia decisamente occidentale, anche se all’antica, molto probabilmente arrivati all’epoca dei primi esploratori, forse quelli inviati dagli Stroganoff dalla grande Madre Russia alla conquista della Siberia. Gentilmente mi invitano a salire e mi introducono in una sala, al cui centro c’è un tavolo imbandito di dolci, caramelle, biscotti, frutta, ecc.. L’ospitalità in queste terre fredde è sacra.  Ricordo che anche in Mongolia, nelle più sperdute “gher”, non mancavano mai tavolini imbanditi con ogni ben di Dio. Tutto sorprendentemente colorato, quasi a lenire il monocromatismo esterno. E ho sempre provato imbarazzo nel prendere qualcosa, perché mi sembrava di derubarli, pensando a quando avrebbero potuto rimpiazzare quello che avevo preso. Anche qui provo la stessa difficoltà, anche se siamo in una città e non sperduti nella steppa. Ma comunque i rifornimenti arrivano per nave o aereo, unici mezzi di trasporto per raggiungere questi luoghi estremi. E ciò mi frena.
Una donna con un tamburo dà inizio alle danze. Sono balli che descrivono gli aspetti della natura. Le ragazze flettono il busto, le braccia, le mani, ondeggiano la testa e imitano, mimando le movenze, gli uccelli e gli animali della loro terra. Noto che tengono i piedi e le ginocchia sempre unite. E’ un fluttuare continuo senza mai muovere un passo. Sono danze completamente diverse da quelle che ho visto in altre parti della Siberia, dove le ragazze giravano, volteggiavano e compivano per l’appunto dei passi di danza. Qui sono ancorate allo stesso posto.
Chissà…. forse i piedi e la parte della gamba fino al ginocchio rappresentano le radici, il busto lo stelo, ed il resto la corolla dei fiori che ondeggia al perpetuo vento; oppure semplicemente simboleggiano la loro terra, “il permafrost”, dove bisogna ancorarsi in profondità per non sprofondare. Alla fine delle esibizioni, dopo averle applaudite, ringraziate e salutate una per una, esco all’aperto e mi guardo intorno.  Sta calando la sera, fa freschino ed in giro non c’è nessuno. Le case, come al solito, sono coloratissime. Qualche finestra illuminata. Passa un’auto, incrocio un militare che mi osserva, saluto la statua di Lenin e mi dirigo verso la casa in cui sono ospite, pensando alle ragazze: “Chissà se sono figlie dei fiori o del permafrost? Che differenza fa, sono semplicemente figlie della loro terra, la Chukotka”.
Apro la porta e salgo le scale.